Con Dune: Parte Due, Denis Villeneuve non si limita a completare l'adattamento del romanzo di Frank Herbert, ma eleva il blockbuster contemporaneo a un livello di astrazione sensoriale raramente raggiunto. Il film trascende la space opera per diventare un trattato audiovisivo sull'ecologia del potere e sulla genesi del fondamentalismo.
Il Brutalismo della Sabbia
L'estetica di Villeneuve è un brutalismo geologico. Arrakis non è una scenografia, ma un organismo ostile che detta le regole dell'esistenza. La fotografia di Greig Fraser lavora per sottrazione: i colori sono desaturati, bruciati da un sole implacabile, riducendo il mondo a geometrie di luce e ombra. In questo spazio, i corpi umani appaiono fragili, transitori, meri ospiti di un ecosistema che li tollera appena.
Questa scelta visiva ha una precisa valenza politica: il deserto spoglia i personaggi delle loro sovrastrutture imperiali, costringendoli a una nudità essenziale. Paul Atreides (Timothée Chalamet) deve "diventare deserto" per sopravvivere, fondendosi con i ritmi biologici di Shai-Hulud.
Il Suono del Destino
Il sound design di Hans Zimmer opera come una forza tettonica. Non accompagna l'azione, la schiaccia. L'uso di strumenti non convenzionali e di cori gutturali crea una liturgia sonora che rende tangibile il peso del destino. La "Voce" non è solo un potere magico, ma una modulazione acustica che piega la realtà, un perfetto esempio di come il suono possa diventare arma politica.
Villeneuve ci mostra che il messianismo non è una liberazione, ma una prigione dorata costruita sulla manipolazione delle speranze collettive.
Conclusione
Dune: Parte Due è un capolavoro di design totale, dove ogni elemento – dal costume al sound editing – concorre a una visione unitaria. È un film che ci avverte sui pericoli dei carismi profetici, ricordandoci che in un universo di risorse finite, ogni teologia è, in ultima analisi, un'ecologia.
Film: Dune: Parte Due (2024)
Regia: Denis Villeneuve
Voto: ★★★★★